I 10 Pigmenti Più Amati dai Grandi Maestri della Pittura

Terre Naturali e Colori di Sintesi

I pigmenti sono il cuore stesso della pittura: polveri di terra, minerali e sostanze organiche che, miscelate con oli e resine, restituiscono alle superfici la vita del colore. Nei secoli, da Tiziano a Van Gogh, ogni grande maestro ha scelto con cura il suo “bottino” cromatico: talvolta terre locali, altre volte spezie minerali rare e preziose, importate da lontano. È grazie a quei materiali – con la loro densità, la loro trasparenza, la loro resistenza alla luce – che si forgiano incarnati morbidi, cieli infiniti, drappeggi vibranti e ombre profonde. Qui scaveremo nel rapporto intimo che lega l’artista al suo pigmento. Esploreremo i colori che più hanno segnato la storia dell’arte, ricostruendo per ciascuno la provenienza, le qualità tecniche e gli usi tradizionali in bottega, prima di scoprire quali artisti non avrebbero potuto fare a meno di quel particolare pigmento. 

10°- Giallo Napoli

Sintetico

COLORE: Giallo Crema

ORIGINE: Campania, Italia

Il Giallo di Napoli è un pigmento dal fascino intramontabile, apprezzato già nel Cinquecento per la sua tonalità calda e cremosa, capace di conferire ai dipinti un’aria solare e morbida. Ottenuto tradizionalmente dalla cottura di solfati e arsenicati di piombo, questo giallo offre una coprenza elevata e una luminosità soffusa che lo rendono perfetto per le campiture ampie, le velature delicate e le mescolanze calde con rossi e bruni. Pur essendo meno brillante di certi gialli organici moderni, il Giallo di Napoli ha la virtù di “scaldare” ogni gamma cromatica, mettendo in risalto la luce nelle carnagioni, nei tessuti e nei giochi di riflesso.

Il Giallo Napoli per Leonardo Da Vinci

Leonardo da Vinci sperimentò con il Giallo di Napoli in alcuni disegni preparatori e nelle velature dei suoi affreschi, sfruttandone la trasparenza avvolgente per modulare i contrasti di luce e ombra. Nei codici e negli studi cromatici conservati alla Biblioteca Ambrosiana, si trovano annotazioni che testimoniano la sua predilezione per un giallo “tiepido” da mescolare al bianco di piombo, ottenendo passaggi di pelle umana che sembrano accendersi dall’interno. Pur non essendo un pigmento dominante nei suoi quadri più celebri, Leonardo ne riconosceva il valore tecnico: grazie alla sua stabilità nei secoli e alla capacità di creare velature delicate, il Giallo di Napoli gli permetteva di dare un tocco di calore alle luci morbide e di scolpire le forme con sfumature quasi impercettibili.

Il Giallo Napoli per Monet

Claude Monet, padrino dell’Impressionismo, adottò il Giallo di Napoli per infondere vibrante luminosità ai suoi paesaggi. Nei dipinti en plein air, come la serie delle Cattedrali di Rouen e dei Ninfee a Giverny, Monet utilizzava il Giallo di Napoli per enfatizzare i riflessi del sole sull’acqua e sui tetti, applicandolo spesso in campiture corpose alternate a tocchi di giallo puro più brillante. Le analisi condotte al Musée Marmottan Monet mostrano come questo pigmento compaia regolarmente nelle stratificazioni dei suoi più celebri studi di luce, confermando che Monet ne apprezzava la resa calda e la capacità di armonizzarsi con i verdi, i blu e i rosa della sua tavolozza. Il Giallo di Napoli gli offriva la base perfetta per creare atmosfere cangianti, in cui la luce diventa materia pittorica.

9°- Blu di Prussia

Sintetico

COLORE: Blu Profondo

ORIGINE: Germania

All’inizio del Settecento, nascere su un cavalletto con un blu profondo come il mare in tempesta divenne possibile grazie al Blu di Prussia, un pigmento di sintesi che rivoluzionò la pittura europea. Con la sua tonalità intensa e fredda, capace di sostenere strati spessi o velature sottili, offriva una saturazione senza pari e una stabilità alla luce che i blu naturali non potevano garantire. In bottega si imparò presto a usarlo come base per cieli notturni e mari agitati, ma anche per suggestive campiture architettoniche e accenti drammatici. La sua versatilità – dal pieno corposità alla trasparenza impalpabile – lo trasformò in un alleato prezioso per ogni scuola e stile, dal Romanticismo fino alle avanguardie del Novecento. Il Blu di Prussia non era un colore qualsiasi: era il blu che apriva nuove porte alla creatività, permettendo agli artigiani del colore di esplorare abissi e riflessi con sicurezza.

Il Blu di Prussia per Dalí

Per Salvador Dalí, il Blu di Prussia rappresentava il colore ideale per evocare atmosfere oniriche e sospese tra sogno e realtà. Lo impiegava in strati decisi per costruire sfondi dall’effetto misterioso e quasi ultraterreno, come nei paesaggi allucinati de La persistenza della memoria. Grazie alla profondità cromatica del pigmento, Dalí riusciva a far emergere elementi simbolici – orologi molli, figure riflettenti, geometrie impossibili – con una forza visiva che sembrava squarciare l’oscurità. Le analisi effettuate su diverse sue tele conservate al Museo Dalí di Figueres hanno confermato che il Blu di Prussia compare in proporzioni consistenti, spesso in strati multipli per mantenere una luminosità duratura. Dalì ne apprezzava la capacità di restituire un blu scuro e denso, perfetto per i suoi contrasti netti con i toni ocra e ocra rossa, creando quel tipico effetto “lumeggiante” su superfici altrimenti piatte. In altre composizioni meno celebri, come alcune nature morte o soggetti metafisici, il Blu di Prussia funge da fondale silenzioso, ma sempre vibrante, in grado di sostenere la sua fantasia visiva senza mai tradire la brillantezza originale.

Il Blu di Prussia per Kandinsky

Wassily Kandinsky riconobbe nel Blu di Prussia non solo un colore, ma una vibrazione spirituale da impiegare nelle sue astratte composizioni. A lui il pigmento offriva un’intensità che trascendeva il visibile, un mezzo per comunicare emozioni profonde e contatti con l’infinito. Nei dipinti esposti al Guggenheim Museum – dove le campiture blu si alternano a forme geometriche e linee dinamiche – il Blu di Prussia è utilizzato per creare “campi di energia” capaci di parlare direttamente all’anima. Le campagne di analisi sui materiali di Kandinsky hanno rilevato l’uso ricorrente di questo pigmento in strati anche molto spessi, a dimostrazione della sua fiducia nella resistenza alla luce e nella stabilità chimica. Kandinsky combinava il Blu di Prussia con rossi puri, gialli vividi e verdi tenui, calibrando le sovrapposizioni per ottenere un movimento visivo continuo. Per lui, questo blu non era mai un dettaglio: era l’elemento cromatico che definiva la “spina dorsale” delle sue opere, capace di evocare note musicali, sensazioni di calma o di tensione, e di guidare lo spettatore in un viaggio interiore.

8°- Terra Verde Verona

Naturale

COLORE: Verde Intenso

ORIGINE: Verona, Italia

ra i pigmenti naturali più antichi e longevi, la Terra Verde di Verona occupa un posto di rilievo nelle botteghe artistiche di tutta Europa, a partire dal Medioevo fino al pieno Rinascimento. Si tratta di una terra argillosa a base di celadonite o glauconite, estratta storicamente nei dintorni di Verona, in cave note fin dall’epoca romana. La sua composizione minerale produce un verde tenue, grigiastro, molto stabile alla luce e perfetto per stesure ampie, sottotoni e velature. Il suo utilizzo più iconico è quello legato all’abbozzo degli incarnati: nelle tecniche a strati tipiche del Quattrocento e Cinquecento, la terra verde veniva spesso impiegata come sotto-tono per le carnagioni, in modo da equilibrare successivamente con ocra rossa e biacca le tinte rosate della pelle. Ma fu usata anche per paesaggi, ombre morbide, panneggi di tessuti e ambientazioni cupe, grazie alla sua opacità vellutata. Questo pigmento era apprezzato per la sua affidabilità tecnica, il costo contenuto e la capacità di asciugare rapidamente quando miscelato con acqua o tempera all’uovo. A differenza di molti verdi organici o ottenuti da rame, non virava facilmente nel tempo. Per questo divenne una costante silenziosa nelle tavolozze dei grandi maestri dell’Italia centrale e settentrionale.

La Terra Verde Verona per Van Gogh

Vincent van Gogh amava la Terra Verde per la sua tonalità naturale e terrosa, che gli permetteva di costruire paesaggi e figure con un effetto materico e profondo. Nei suoi celebri dipinti, come I Girasoli e Campo di grano con corvi, il verde di Verona compare spesso mescolato ad altri pigmenti, utilizzato sia per le foglie e i campi sia come base per dare struttura alle composizioni. Le analisi condotte su molte sue tele, tra cui quelle conservate al Van Gogh Museum di Amsterdam, mostrano come van Gogh prediligesse questo pigmento per la sua capacità di resistere nel tempo senza alterarsi, mantenendo una consistenza opaca che esaltava il suo stile vibrante ma controllato. Per Van Gogh, la Terra Verde non era solo un colore: era una componente essenziale per esprimere la forza e la vitalità della natura, conferendo alle sue pennellate un senso di autenticità e durevolezza. Il pigmento si trova in buona parte delle sue opere più famose, dimostrando quanto fosse radicato nella sua tavolozza.

La Terra Verde Verona per Cézanne

Paul Cézanne considerava la Terra Verde un elemento fondamentale nella sua ricerca del volume e della struttura nei paesaggi e nelle nature morte. Nei dipinti come Mont Sainte-Victoire e Natura morta con mele e arance, la terra verde è utilizzata per modellare le forme, per sottolineare ombre e transizioni cromatiche, conferendo un senso di solidità e peso alle sue composizioni. Le indagini scientifiche effettuate sul corpus di opere di Cézanne, conservate in musei come il Musée d’Orsay e il Metropolitan Museum, confermano un uso costante e abbondante di questo pigmento, che gli permetteva di lavorare con la luce e il colore in modo innovativo, giocando sulla densità e sulla trasparenza. La sua tavolozza sobria e rigorosa trovava nella Terra Verde un alleato prezioso per raggiungere quell’equilibrio tra forma e colore che caratterizza il suo stile unico. Per Cézanne, quindi, la Terra Verde non era un semplice pigmento, ma uno strumento insostituibile per costruire la realtà visiva, utilizzato ripetutamente in molte opere importanti con una consapevolezza tecnica e artistica che ancora oggi affascina gli studiosi.

7°- Azzurrite

Naturale

COLORE: Blu Chiaro

ORIGINE: Europa

Tra i blu della storia, l’azzurrite è stato senza dubbio uno dei più apprezzati dai pittori di ogni epoca, prima che l’arrivo del blu oltremare lo mettesse in ombra nei dipinti di fine Rinascimento. Non si tratta solo di una questione estetica: l’azzurrite aveva il grande pregio di essere più accessibile economicamente rispetto al costosissimo lapislazzuli, e allo stesso tempo sapeva restituire un blu pieno, profondo, talvolta con sfumature leggermente verdastre che lo rendevano unico. Si ottiene da un minerale di rame, lavorato a mano fino a ridurlo in polvere fine, e veniva poi legato con colle animali o tuorlo d’uovo, a seconda della tecnica. Eppure, nonostante i suoi limiti, l’azzurrite è stato il blu dei grandi cicli di affreschi, delle pale d’altare e dei cieli dipinti di mezza Europa, prima ancora che il commercio veneziano portasse il blu oltremare nei laboratori del nord. A renderlo tanto amato dai maestri è stato il suo equilibrio: un pigmento vivo, visibile, presente, che si lasciava lavorare bene, che si mescolava volentieri con i bianchi per le luci e con i neri per le ombre. Era un colore di mestiere, che si trovava nei laboratori dei miniatori fiamminghi, nei cantieri delle cappelle italiane, nelle mani di chi dipingeva con pazienza e scienza. Non era un colore raro, ma era prezioso nel modo in cui sapeva rendere il mondo più vero o più sacro, a seconda dell’occasione. Per questo, l’azzurrite ha accompagnato per secoli le mani degli artisti, da Giotto a Dürer, sempre fedele, sempre presente, nei cieli stellati e nelle pieghe di un manto, nei paesaggi e nei panneggi, ovunque servisse un blu che sapesse raccontare senza sovrastare.

L’Azzurrite per Giotto

Nel lavoro di Giotto, l’azzurrite non è un semplice pigmento: è la materia stessa del cielo e della santità. Nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1305), uno dei cicli affrescati più celebri e meglio conservati del Trecento, l’azzurrite domina le volte e i fondi. A differenza del più raro blu oltremare, che compare solo in punti specifici (ad esempio nei manti della Vergine), l’azzurrite viene usata su larga scala, in modo esteso e costante. Le analisi condotte dal CNR e dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, come anche da studi dell’Università di Padova, hanno confermato che Giotto impiegò l’azzurrite in quasi tutti gli sfondi paesaggistici e celesti, spesso miscelata con biacca per schiarire le luci e con neri per rendere le profondità. In molte scene, l’azzurrite si stende direttamente sull’intonaco fresco, legata con calce, mentre in altre è applicata a secco, con leganti proteici o colla animale, per aumentarne l’intensità. Giotto la impiegava anche per costruire le ombre nei panneggi, dove l’azzurro si fonde con il rosso per dare forma e corpo alle figure, anticipando tecniche che diventeranno canoniche nei secoli successivi.

L’Azzurrite per Botticelli

Nel mondo delicato e lineare di Sandro Botticelli, l’azzurrite è uno dei pigmenti chiave che tornano più spesso nelle sue opere, soprattutto per definire i manti delle figure sacre e per accentuare elementi ornamentali dal forte valore simbolico. Prima ancora che l’oltremare afghano diventasse la regina dei blu rinascimentali, l’azzurrite rappresentava una scelta solida, locale, disponibile e capace di offrire una gamma di tonalità ampia, dal blu verdastro al turchese profondo, a seconda della preparazione e dei leganti usati. Botticelli ne fece un uso abbondante e continuo, in particolare nelle pale sacre e nei suoi capolavori commissionati da famiglie fiorentine potenti. Nell’Adorazione dei Magi degli Uffizi, ad esempio, l’azzurrite domina le vesti della Vergine e di alcuni dei Magi, applicata in strati multipli e sfumata con bianco per creare riflessi e pieghe leggere. Lo stesso pigmento si ritrova nella Madonna del Magnificat e nella Madonna della Melagrana, due tondi celebri dove il blu del manto mariano è stato identificato come azzurrite da studi condotti nei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Botticelli la preferiva all’oltremare, almeno fino agli ultimi anni della sua produzione, forse per una questione di disponibilità o per una scelta estetica consapevole: l’azzurrite ha una qualità opaca, terrestre, più compatta, che si sposa perfettamente con il suo disegno deciso e con la sua visione idealizzata ma concreta del mondo.

6°- Biacca

Sintetico

COLORE: Bianco Luminoso

ORIGINE: Europa

Tra tutti i bianchi antichi, nessuno ha avuto una vita così lunga, influente e amata come la biacca, conosciuta anche come bianco di piombo. Usata fin dall’antichità, la si otteneva attraverso un processo lento e complesso, che coinvolgeva l’ossidazione del piombo metallico esposto a vapori di aceto e calore: il risultato era una polvere densa, opaca e compatta, di una brillantezza calda, leggermente tendente al crema. Era un bianco “vivo”, molto più caldo e corposodel moderno biossido di titanio. La biacca era apprezzata non solo per il colore, ma per le sue qualità strutturali: asciugava rapidamente nell’olio, rendeva le mescolanze più elastiche, migliorava la stesura a impasto e creava superfici solide, quasi tridimensionali. La sua capacità di riflettere la luce pur mantenendo una tonalità delicata la rese essenziale nella pittura a olio, soprattutto nei passaggi luminosi della carne, nei cieli, nei panneggi, nelle lumeggiature e nei fondi chiari. La si usava spesso anche in sottostrato, per imprimere volume sotto le velature traslucide. Ed è proprio questa versatilità tecnica ed estetica che la rese insostituibile per secoli: dalla pittura fiamminga a quella italiana, dal Nord al Sud Europa, la biacca è stata il bianco per eccellenza dell’arte occidentale fino al XIX secolo. Non esiste praticamente artista rinascimentale o barocco che non l’abbia utilizzata. Ma alcuni, più di altri, ne fecero un ingrediente centrale della loro visione pittorica.

La Biacca per Renoir

Per Renoir, la luce era la carne stessa della pittura, e nessun pigmento la rendeva più viva e palpabile della biacca. Sebbene già nell’Ottocento si conoscessero alternative meno tossiche – come il bianco di zinco e il bianco di titanio – Renoir continuò a preferire la biacca, sia per la sua calda opacità, sia per la resistenza e la flessibilità nell’impasto a olio. In dipinti come Le Moulin de la Galette (Musée d’Orsay), Jeunes filles au piano (Musée d’Orsay) e La balançoire (Musée d’Orsay), il bianco di piombo è presente in grande quantità: non come puro pigmento a se stante, ma come base fondamentale per costruire la vibrazione cromatica dei volti, dei vestiti, delle superfici. Renoir lo mescolava ai rosa, ai gialli e perfino ai blu per ottenere quella tavolozza calda, solare e umana che è il tratto più riconoscibile della sua opera. La biacca, per Renoir, era il veicolo della luce naturale, il modo per ottenere una pelle che sembrasse illuminata dall’interno, per dare vita al panneggio di un abito o al riflesso di una tenda.

La Biacca per Velázquez

Anche Velázquez trovò nella biacca una compagna indispensabile di lavoro. Le analisi condotte dal Museo del Prado e dal Getty Conservation Institute su tele come Las Meninas, Venus allo specchio e Il buffone don Sebastián de Morra hanno confermato l’uso ricorrente di biacca in quasi tutte le sue fasi pittoriche. Non si trattava solo di un bianco per mescolare altri colori: era un materiale centrale per la sua costruzione del volume e della luce. Velázquez usava la biacca in maniera estremamente raffinata: a volte piena, opaca, come massa di luce, altre volte diluita, stesa in trasparenza per suggerire l’atmosfera e le vibrazioni ambientali. In Las Meninas, per esempio, le lumeggiature sui vestiti, sulle pareti e persino nei riflessi del fondo sono realizzate con sottili impasti di biacca, lavorati con pennello asciutto o appena umido. Ciò che colpisce è come Velázquez sapesse usare il bianco non per descrivere ma per evocare, per dare respiro allo spazio, per disegnare l’aria. La biacca era il mezzo con cui poteva modellare il vuoto e riempirlo di senso. E proprio per questo, anche nel suo caso, non si tratta di un pigmento tra gli altri, ma di uno strumento poetico e tecnico fondamentale.

5°- Nero d’Ossa

Naturale

COLORE: Nero Profondo

ORIGINE: Europa

Tra i neri storici più intensi e permanenti, il nero d’ossa si distingue per il suo tono profondo e leggermente brunastro, ottenuto attraverso la carbonizzazione ad alta temperatura di ossa animali, prevalentemente bovine. A differenza del nero carbone – più leggero, opaco e tendente al blu – il nero d’ossa offre una densità ottica maggiore, una finitura più vellutata e una straordinaria capacità coprente, che lo ha reso uno dei pigmenti preferiti da molti pittori per secoli. La sua composizione chimica (carbonato di calcio misto a carbone amorfo) gli conferisce stabilità alla luce, compatibilità con tutti i leganti e ottima lavorabilità. Era usato sia per creare profondità nelle ombre che per mescolanze sofisticate: un pigmento che permetteva di modulare la luce con grande controllo. La sua versatilità lo rese un punto fermo nelle tavolozze europee tra XVI e XIX secolo, amato non solo per il nero in sé, ma anche per le infinite variazioni che permetteva di ottenere. È stato un pigmento “strutturale” nella pittura figurativa e storica, impiegato tanto per i contorni e gli sfondi quanto per scolpire i volumi e rafforzare le architetture compositive.

Il Nero d’Ossa per Goya

In Goya, il nero d’ossa diventa veicolo espressivo e strumento concettuale. Nelle sue opere più tarde, come nelle celebri “Pitture nere” realizzate sulla pareti della Quinta del Sordo (oggi conservate al Prado), l’uso del nero non è mai decorativo, ma sostanziale. Analisi effettuate dal dipartimento di conservazione del Prado hanno rilevato l’impiego sistematico di nero d’ossa mescolato a terre e bianchi, per costruire gamme scure sottilissime, passaggi d’ombra e zone di tensione psicologica. Questo pigmento era ideale per rendere la drammaticità delle scene, la gravità dei soggetti e l’introspezione violenta che caratterizza opere come Saturno che divora i suoi figli o Il cane. Ma il nero d’ossa compare anche in molte delle sue incisioni e dei dipinti precedenti, spesso come base per velature complesse o per rinforzare le strutture chiaroscurali. La sua scelta non era tecnica ma profondamente poetica: il nero d’ossa gli offriva la possibilità di lavorare “contro la luce”, costruendo dal buio, quasi scavando nella pittura. Era il pigmento che più di tutti aderiva alla sua visione tragica e potente dell’esistenza.

Il Nero d’Ossa per Picasso

Anche Pablo Picasso, in fasi cruciali del suo percorso artistico, fece grande uso del nero d’ossa, soprattutto durante il cosiddetto periodo blu (1901–1904) e nel periodo cubista successivo. Il Centre Pompidou e il Museo Picasso di Barcellona, attraverso campagne di analisi spettroscopica e riflettografica, hanno confermato la presenza ricorrente di nero d’ossa nelle opere di questi anni, impiegato sia in stesura piena che in sovrapposizione trasparente. Nel Ritratto di Suzanne Bloch (1904), nel Vecchio chitarrista cieco (1903) o in La vita (1903), il nero d’ossa è visibile nelle profondità degli sfondi, nei tratti vigorosi che strutturano le figure, nei contrasti netti tra luce e forma. Rispetto ai neri più tenui, il nero d’ossa garantiva una forza drammatica maggiore, un corpo che rispondeva alla pennellata. Nella fase cubista, poi, Picasso ne fa un uso più architettonico e costruttivo, impiegandolo per delimitare i piani, isolare le forme, suggerire tridimensionalità anche nelle composizioni più astratte. La sua applicazione diventa quasi scultorea, e il pigmento non è più solo un colore, ma un elemento strutturale dell’immagine. Il legame tra Picasso e il nero d’ossa si basa su una affinità visiva e concettuale: entrambi, artista e pigmento, cercano l’essenza attraverso la sottrazione, la massa e il taglio netto della luce. Per Picasso, il nero non era mai “vuoto”, ma una forma che afferma.

4°- Terra di Siena

Naturale

COLORE: Giallo Caldo

ORIGINE: Siena, Toscana

La Terra di Siena incarna più di altre terre naturali il legame tra pigmento e paesaggio. Si tratta di ocra gialla con caratteristiche particolari che la rendono un’eccellenza che viene estratta da secoli nei colli intorno a Siena, come dove le cave erano note già dal Medioevo e sono tutt’oggi attive. Il nome stesso è diventato sinonimo di un giallo-bruno caldo, facilmente essiccabile e straordinariamente resistente nel tempo. Dopo la cottura ad alta temperatura, assume tonalità più profonde e calde, trasformandosi in Terra di Siena bruciata. Ma la sua vera forza non sta solo nella stabilità e nella tonalità: la Terra di Siena ha conquistato gli artisti di ogni epoca per la sua versatilità. Mischiata con bianco, dà toni ocra pastosi e pieni; sovrapposta a neri e blu, regala ombre tiepide e vibranti. La sua componente terrosa e il suo aspetto naturale, insieme alla facilità di preparazione e stesura, l’hanno resa un pigmento fondamentale nella pittura figurativa, nei fondi, negli incarnati, nei panneggi e persino nei paesaggi.

La Terra di Siena per Caravaggio

Per Caravaggio, la Terra di Siena fu uno dei pilastri della sua pittura a olio, e non solo per motivi pratici. Nei quadri di Caravaggio si percepisce un uso intenso e consapevole di questo pigmento, soprattutto nella costruzione dei toni intermedi tra luce e tenebra. I restauri condotti alla Galleria Borghese, al Museo di Capodimonte e alla National Gallery di Londra hanno messo in luce come la Terra di Siena sia presente in quasi tutti i suoi capolavori, spesso usata come base per gli incarnati, mescolata con bianco per i mezzi toni e con nero per le ombre. Nel San Giovanni Battista, nella Cena in Emmaus e nella Deposizione, si può osservare chiaramente come Caravaggio sfruttasse la Terra di Siena per riscaldare le figure, per dare consistenza agli abiti e profondità ai fondi. Amava le terre naturali perché non tradivano la luce, restituivano un senso tattile e organico ai volumi, ed erano perfettamente coerenti con la sua idea di verità pittorica. La Terra di Siena, in particolare, gli permetteva di passare dal modellato morbido dei volti alla ruvidezza delle mani callose, con una sola sfumatura.

La Terra di Siena per Michelangelo

Nella monumentale opera pittorica di Michelangelo, in particolare nella Cappella Sistina, la Terra di Siena emerge come pigmento fondamentale nella resa delle carnagioni e delle architetture. Nelle analisi condotte dai restauratori dei Musei Vaticani durante l’intervento del 1980-94, è stato confermato l’impiego esteso di Terra di Siena – sia naturale che bruciata – per creare le ombre calde degli incarnati, per dare corpo ai toni medi della pelle e per armonizzare i passaggi tra luce e ombra nelle possenti figure nude del Giudizio Universale. Michelangelo ne apprezzava la profondità e la naturalezza, elementi essenziali per ottenere la plasticità scultorea che cercava anche nella pittura. La Terra di Siena si ritrova in tutte le sue grandi composizioni pittoriche, usata in modo discreto ma continuo, a dimostrazione di quanto fosse parte integrante della sua concezione pittorica. Non era un colore d’effetto, ma uno strumento affidabile, scelto più per la sua funzione strutturale che decorativa, e proprio per questo insostituibile.

3°- Cinabro

Naturale

COLORE: Rosso Vermiglione

ORIGINE: Europa, Asia

Il cinabro, trasformato in vermilione impalpabile, è un solfuro di mercurio (HgS) che offre un rosso intenso e coprente, capace di resistere al tempo senza sbiadire. Dalle miniere di Almadén in Spagna al laboratorio dell’artista, questo pigmento è stato apprezzato per la sua saturazione impareggiabile, la robustezza della copertura e la compatibilità con diversi leganti (olio di lino, tempera, affresco). La sua versatilità lo ha reso un punto fermo in tutte le scuole pittoriche: usato come sottotono per scaldare i rossi successivi, come campitura piena per drappeggi sontuosi o come glaze trasparente montato su bianco di piombo per intensificare la luce. Il cinabro ha sostenuto intere rivoluzioni cromatiche, dall’illuminazione dei manoscritti medievali al Barocco, fino alla pittura storica ottocentesca, diventando uno dei pigmenti più costosi ma più richiesti in bottega 

Il Rosso Cinabro per Rubens

Per Rubens, il vermilione era un alleato indispensabile per creare la sontuosa teatralità delle sue composizioni. Oltre alla famosa Discesa dalla Croce, dove i toni scarlatti dei manti sono stesi in maniere corpose e sigillati con glosse brillanti, il pigmento domina anche nei dettagli di opere come Il ratto delle figlie di Leucippo e Il giudizio di Paride, dove i rossi intensi delle stoffe e dei tessuti si fondono con i chiaroscuri profondi, dando vita a contrasti di straordinaria forza emotiva. Le analisi XRF eseguite su campioni di vari dipinti di Rubens confermano la presenza abbondante di HgS in molte aree, a testimonianza del suo uso ripetuto e calibrato per modellare volumi e drappeggi.

Il Rosso Cinabro per Jacques-Louis David

Il cinabro fu fondamentale anche per Jacques-Louis David, che ne fece uno dei cardini della sua tavolozza neoclassica. In dipinti monumentali come Il giuramento degli Orazi e L’incoronazione di Napoleone, il vermilione veniva impiegato in ampie campiture per i manti imperiali, le vesti cerimoniali e gli stendardi, con un controllo rigoroso della luce e della composizione. Le analisi condotte dal Louvre e dal Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France (C2RMF) hanno rilevato consistenti percentuali di HgS in diverse opere del maestro, confermando che David prediligeva il cinabro per esprimere potenza simbolica e disciplina formale. Il suo uso del pigmento era metodico: applicava strati sottili, sovente miscelati a bianco di piombo per regolare la luminosità, mantenendo sempre la chiarezza narrativa tipica della sua estetica rivoluzionaria.

2°- Blu Oltremare

Naturale

COLORE: Blu Acceso

ORIGINE: Afghanistan

Il blu oltremare, ricavato dalla macinazione del lapislazzuli, è da sempre considerato il re dei blu per la sua saturazione unica, la purezza del tono e la stabilità alla luce, qualità che ne hanno fatto un pigmento più prezioso dell’oro nel Rinascimento. La sua preparazione artigianale – dalla selezione delle vene migliori nel Badakhshan afghano alla lunga macinatura in acqua e colla di osso – determina la ricchezza del colore e la presenza di impurità che mutano lievemente le sfumature, rendendo ogni lotto di ultramarine leggermente diverso. In bottega, i pittori calibravano lo spessore dello strato e la miscela con bianco di piombo o con velature di azzurrite impura per ottenere cieli profondissimi, panneggi marmorei o accenti luminosi capaci di reggere il confronto con l’oro.

Il Blu Oltremare per Tiziano

Tiziano trasformò il blu oltremare nel marchio distintivo delle sue pale più solenni. Nei mantelli della Vergine della Pala dell’Assunta e nei cieli della Madonna di Ca’ Pesaro, stratificava sottili mani di azzurrite impura seguite da un spesso strato di ultramarine puro, ottenendo una profondità impossibile da eguagliare con altri pigmenti . La quantità di ultramarine impiegata era tale da far risaltare ogni piega dei drappeggi e avvolgere le figure in un’aura sacra, tanto che nelle analisi dei campioni si ritrovano residui consistenti di lazurite e tracce di collagene animale dal processo di purificazione tradizionale.

Il Blu Oltremare per Raffaello

Anche Raffaello riservò all’oltremare un ruolo centrale nelle sue composizioni sacre. Nella Deposizione di Cristo i rilievi Raman hanno individuato picchi caratteristici dell’ultramarine confermando l’uso di uno strato pigmentato che conferisce alla veste blu della Vergine una vibrante luminosità. L’abitudine a stendere più mani di pigmento e a sigillare lo strato con vernice resinosa permette ancora oggi di osservare il blu intenso, che Raffaello utilizzava per innalzare emotivamente i momenti di devozione e raccoglimento.

1°- Ocra Gialla

Naturale

COLORE: Giallo Terroso

ORIGINE: Tutto il Mondo

Nel canovaccio di ogni bottega rinascimentale e oltre, l’ocra gialla si imponeva come la prima scelta dell’artigiano: una polvere di terra dal calore innato, capace di restare immutata alla prova del tempo e della luce. Estratta da giacimenti argillosi, questa sostanza offre un ventaglio di sfumature, dal paglierino tenue al giallo dorato, che si adatta con sorprendente naturalezza a incarnati, paesaggi e tessuti. La sua forza risiede nella versatilità: regolando la granulometriae dosando l’olio di lino o l’emulsione proteica, il pittore otteneva sia velature sottilissime, perfette per scaldare le prime mani, sia stesure spesse e materiche, ideali per campiture in pieno. Quel che ha reso l’ocra gialla un pilastro nella storia dell’arte non è solo la sua stabilità o il costo contenuto, ma la capacità di armonizzarsi con qualsiasi altro pigmento, dal blu profondo ai rossi più intensi. Usata come “fondo morto” per legare i toni e come velo finale per un soffio di luce calda, l’ocra gialla ha saputo accompagnare ogni rivoluzione cromatica, diventando il segreto silenzioso di volti vibranti e cieli radiosi.

L’Ocra Gialla per Verneer

Johannes Vermeer fece dell’ocra gialla un punto fermo della sua tavolozza, impiegandola in quantità elevate sia come base morta sia in velature successive. Le analisi MA‑XRF e riflettografia multispettrale sul celebre Girl with a Pearl Earring mostrano che il giallo ocra è presente non solo nel turbante e nella giacca della fanciulla, ma anche nelle sottostanti velature dell’incarnato e nella resa degli elementi di sfondo . Analogamente, in The Girl with a Wineglass e in View of Delft Vermeer adoperò ocra gialla pura per i pavimenti e le porzioni illuminate degli edifici, alternandola a bianco di piombo per ottenere variazioni di luminosità che rinvigorivano la scena

L’Ocra Gialla per Rembrandt

Rembrandt van Rijn impiegò l’ocra gialla in quasi tutte le fasi della sua pittura, da sottotoni sabbiosi fino a velature calde sugli incarnati. Le analisi condotte da ColourLex rivelano che, in autoritratti come Self‑Portrait e in opere di genere come Saskia as Flora, l’artista utilizzò miscele di ocra gialla, umbra e bianco di piombo per costruire un chiaroscuro ricco e vibrante. Nei ritratti monumentali, come The Night Watch, l’ocra gialla compare in abbondanza nei vestiti e nelle armi, fornendo quel calore dorato che contrasta con il nero profondo e diventa cifra stilistica della sua arte.