• Colori del Lazio

Le Terre Naturali del Lazio

Alla Scoperta di Pigmenti e Terre Coloranti Laziali

Nel Lazio il paesaggio è un intreccio di vulcani spenti, sedimenti fluviali e formazioni latitiche che hanno prodotto una gamma di terre e pigmenti naturali impiegati fin dall’antichità. Dalla tufo grigio di Roma, estratto nelle cave di Grotta Oscura e di Monte Cavo, alle argille rosse dell’Aniene e ai sedimenti sabbiosi della costa tirrenica, ogni materia prima pigmentata è stata riconosciuta, selezionata e trasformata da artigiani e muratori attraverso gesti consolidati: macinatura su pietra, decantazione in tinozze di legno e asciugatura all’ombra.

Già dagli scavi nelle necropoli di Cerveteri e Tarquinia, si evince che i mastri etruschi sapevano distinguere le sfumature di ocra estratta nei pressi dell’alta Tuscia per creare decorazioni dalle tonalità calde - un rosso mattone o un giallo ambrato - applicate direttamente sugli intonaci a fresco delle tombe. Quei pigmenti, adattati con calce e frammenti di cocciopesto, garantivano colori vivi e duraturi, capaci di resistere all’umidità e all’aggressione del tempo.

Le Terre Colorate Romane

Pigmenti Naturali e Zone di Origine

Nel Lazio, la terra offre pigmenti unici che riflettono la complessità geologica della regione: dal tufo grigio di Roma alle terre ferruginose dei Colli Albani, passando per le argille gialle della Sabina e la pozzolana di Tivoli. Gli artigiani selezionano ogni materia a occhio e al tatto, la frantumano su pietra lavica o arenaria, la decantano in tinozze di legno e la lasciano asciugare all’ombra per ottenere polveri dal potere coprente, dalla stabilità alla luce e dalla granulometriaideale per stucchi, affreschi e intonaci.

Il Tufo Grigio

Il tufo grigio – una roccia vulcanica estratta fin dall’epoca etrusca nelle cave di Grotta Oscura e di Monte Cavo – fornisce un pigmento che va dal grigio chiaro al blu tenue, impiegato per creare sfondi neutri e basi materiche in tutta l’architettura romana . La sua porosità lo rende facile da macinare, e la sua struttura naturale garantisce un effetto rustico e autentico.

Le Terre Rosse Laziali

Le terre rosse dei Colli Albani, ricche di ossidi di ferro (20–30 % Fe₂O₃), emergono nelle cave di Marino e Nemi: da queste argille ferrose nasce un rosso intenso, usato tradizionalmente negli intonaci delle ville patrizie e nei restauri delle corti medievali. Gli artigiani locali spezzano i blocchi con mazze di ferro, poi macinano la parte interna su pietre di peperino, setacciandola accuratamente per ottenere un pigmento uniforme e resistente al gelo

Le Ocre Gialle Laziali

In Sabina, le argille limonitiche di Civitavecchia e Orte, con limonite oltre il 25 %, danno vita a un’ocra gialla dal tono paglierino caldo. Raccolta in piccole buche a cielo aperto, lavata e decantata più volte, questa ocra si presta a decorazioni interne e a finiture in bioedilizia per la sua capacità di regolare l’umidità dei muri e di riflettere la luce senza alterarsi nel tempo

Pozzolana Vulcanica

La celebre pozzolana di Tivoli – cenere vulcanica finissima – entra nella composizione delle malte idrauliche sin dai tempi di Vitruvio. Pur non colorando intensamente, conferisce alle miscele una leggera sfumatura grigio‑beige ed è spesso mischiata a terre chiare per ottenere intonaci dal tono sabbia, particolarmente apprezzati negli edifici a destinazione pubblica e religiosa

Sabbie e Argille

Infine, i sedimenti fluviali del Tevere, ricchi di sabbie calcaree e argille, hanno prodotto polveri chiare che, impastate con calce, regalano intonaci dal bianco avorio con riflessi dorati: un classico delle facciate rinascimentali e barocche di Roma, da Palazzo Farnese a Piazza Navona

Vista del Cratere nei Colli Albani

Il Nero Roma – Una Storia Millenaria

Il Nero Roma non è un semplice “nero di fumo” né un carbone vegetale : è un pigmento minerale inorganico naturale, ricavato dalla lignite terrosa che affiora in depositi storici della zona di Roma (e talvolta di Verona). Gli artigiani antichi conoscevano queste vene brune‑nere, le estraevano in gallerie o a cielo aperto, ne eliminavano le impurità con decantazioni e lavaggi, poi essiccavano la massa all’aria e la macinavano su pietre locali fino a ottenere una polvere finissima. La sua composizione tipica comprende carbonati di calcio, ossido di manganese (MnO₂) e ossido di ferro (Fe₂O₃), con una frazione di lignite che gli conferisce la caratteristica tonalità caldo‑brunastra e una buona stabilità alla luce e all’umidità.

Storicamente, il Nero Roma venne impiegato già nel XV secolo per ritocchi, contorni e dettagli scuri nelle decorazioni di palazzi e chiese. Nella tradizione pittorica romana era apprezzato per il suo basso potere tingente, che consentiva di costruire gradazioni di grigio e sfumature morbide, fondamentali negli stucchi barocchi di San Pietro in Vaticano e in molte dimore patrizie. Ancora oggi, chi restaura gli affreschi delle domus del Palatino o interviene sui dipinti murali rinascimentali cerca questo pigmento per rispettare fedelmente le stratificazioni cromatiche originali.

I Colori dell’Antica Roma nel Lazio

Nel Lazio, il colore ha sempre avuto radici profonde nel suolo vulcanico e nei sedimenti fluviali. Già gli Etruschi di Cerveteri e Tarquinia sfruttavano le terre rosse locali, chiamate dai Greci sinopis, per decorare le tombe a tumulo con pitture monocrome in ocra e rosso mattone Con l’espansione di Roma, questi pigmenti divennero parte integrante del linguaggio visivo della Repubblica: i ritratti funebri in Cappellacce dipinte utilizzavano ocra gialla e terre rossastre estratte lungo il Tevere e nella campagna sabina, dove le argille limonitiche offrono un’ocra particolarmente stabile.

Durante l’età augustea, le tecniche pittoriche dei veri artisti da villa – come quelle di Pompei – risuonarono a Roma: il Rosso Pompeiano, o ematite di origine locale o importata da Pozzuoli, veniva impiegato per gli stucchi dei portici del Campo Marzio e per tracciare grandi fasce nei primi modi pompeiani. Contemporaneamente, la pozzolana di Tivoli, pur servendo soprattutto ai muratori per le malte idrauliche, si mescolava in lotti ristretti a calce e terre chiare per ottenere intonaci “a sabbia” che decoravano i lacerti delle domus patrizie.

Nel II–III secolo d.C., con la piena fioritura dell’Impero, emersero pigmenti più sofisticati: il nero romano (PBk6), un miscuglio di lignite lavata e ossidi di manganese, regalava toni scuri e opachi alle sale di ricevimento, come testimoniano i resti di affreschi rinvenuti sul Palatino. Accanto a questo, i gialli di Orvieto e di Albano – terre limonitiche lavorate in vasche di decantazione – venivano usati per i riquadri ornamentali nelle basiliche e nei mausolei suburbani.

Il Tardo Antico vide infine l’arrivo di coloranti esotici, come l’azurrite importata dall’Egitto e l’orpimento (arsenicale), usati con parsimonia nei mosaici delle terme di Caracalla e, più tardi, nei primi cicli di pittura paleocristiana. Ma le terre locali non scomparvero: le comunità rurali continuarono a impiegare le vecchie ocre e i neri di carbone nei loro piccoli santuari e nelle pitture rupestri delle catacombe, mantenendo vivo un patrimonio cromatico radicato nel Lazio.

I Pigmenti Laziali nella Storia e nell’Arte

A Roma e nel Lazio, i pigmenti naturali non sono mai stati semplici colori da rivestimento, ma il cuore materiale delle grandi imprese artistiche e architettoniche. Nel Cappella Contarelli di Santa Maria del Popolo, Caravaggio sfruttò la profondità del Nero Roma, un minerale di lignite finemente macinato, accostandolo alle velature calde delle ocra e dei rossi dei Colli Albani per creare un chiaroscuro drammatico che ancora oggi sorprende il visitatore.

Cappella di Santa Maria del Popolo- Roma

Cappella di Santa Maria del Popolo- Roma

Pochi anni prima, nelle Stanze di Raffaello in Vaticano, Raffaello Sanzio richiese un’ocra gialla locale - ricavata dalle argille limonitiche della Sabina – per animare i festoni e i drappeggi, ottenendo un giallo pieno che dialoga con il tufo romano dell’intonaco sottostante, creando un gioco di luce e ombra sospeso tra materia e pittura .

Nel Seicento, Domenichino e Guido Reni scelsero le terre rosse dei Colli Albani - prodotte nelle cave di Marino e Nemi – per rendere le carnagioni dei santi nelle grandi pale d’altare di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore. Quel rosso mattone, setacciato e mescolato alla calce, dava al dipinto un calore naturale, perfetto per l’architettura barocca che amava le superfici avvolgenti.

Con il Barocco maturo, Pietro da Cortona nelle sale di Palazzo Barberini sperimentò l’argilla rosa delle Murge, importata via fiume fino al Tevere, per realizzare sfumature delicate nelle volute e nei festoni decorativi. Il rosa tenue di quelle terre, mescolato a calce idrata, risalta ancora oggi contro il bianco vivo della pietra d’Istria, testimonianza della sapienza degli stuccatori romani .

Palazzo Barberini - Emblema del barocco romano.

Palazzo Barberini – Emblema del barocco romano.

Infine, nelle facciate di Palazzo Farnese e nei dipinti di Annibale Carracci, il bianco avorio dei sedimenti fluviali del Tevere trasformati in polvere e miscelati alla calce conferiva un riverbero dorato agli stucchi rinascimentali e barocchi. È questo dialogo millenario tra geologia e creatività, tra cave, tinozze di decantazione e pennelli, che rende unico il patrimonio cromatico del Lazio e spinge ancora oggi restauratori e artisti a usare questi pigmenti per mantenere vivo il filo tra passato e presente

Applicazioni Contemporanee nell’Edilizia Tradizionale

Nel Lazio di oggi, l’eredità dei pigmenti naturali si mantiene viva soprattutto grazie a restauratori, artigiani e piccoli produttori che custodiscono un sapere antico con strumenti moderni. Sebbene molte delle cave tradizionali siano inattive o fortemente ridotte rispetto al passato, le terre coloranti laziali continuano a essere impiegate nel recupero conservativo di edifici storici e in alcune produzioni artistiche di nicchia.

La terra rossa dei Colli Albani, ad esempio, viene ancora utilizzata nei cantieri di restauro per ripristinare stucchi e intonaci storici, soprattutto nei borghi antichi come Castel Gandolfo o Grottaferrata, dove le superfici originali erano state colorate proprio con pigmenti locali. Lo stesso vale per l’ocra sabina, che trova impiego in piccole produzioni di calce colorata e nei laboratori artigiani che realizzano affreschi o finiture murarie con tecniche tradizionali.

Un pigmento di grande interesse contemporaneo è il Nero Roma, riscoperto recentemente non solo come colore per il restauro di opere pittoriche seicentesche, ma anche come base per vernici ecologiche e stucchi decorativi, per il suo tono profondo e vellutato. In alcuni casi, viene addirittura usato da designer e decoratori per riprodurre ambienti ispirati all’arte barocca romana o all’archeologia imperiale.

Anche nella bioedilizia e nel design sostenibile, architetti e costruttori attenti ai materiali locali stanno riscoprendo le terre del Lazio: non solo per il valore storico, ma per la loro resa cromatica naturale, la compatibilità con la calce e l’impatto ambientale minimo. Il tufo romano, ad esempio, continua a essere apprezzato per intonaci traspiranti e facciate a vista, mentre alcuni laboratori sperimentano miscele di pigmenti laziali con argille e leganti ecologici per produrre pitture murali a basso impatto.