Leonardo non separava l’arte dalla chimica: in bottega annotava su taccuini esperimenti sulle terre, sugli ossidi e sui leganti. Ogni pigmento era scelto non per moda, ma per caratteristiche precise – opacità, compatibilità, resistenza alla luce – perché solo un colore ben calibrato avrebbe mantenuto nei secoli la morbidezza degli incarnati e la profondità dei panneggi. Con queste premesse, la sua tavolozza diventa lo specchio di un artigiano-scienziato: un insieme di terre naturali e minerali miscelate con cura per dare vita allo “sfumato” e alle atmosfere di capolavori come la Gioconda o l’Ultima Cena.
I Pigmenti della Tavolozza di Leonardo Da Vinci
Leonardo da Vinci affrontava ogni pigmento come un artigiano studia il materiale più prezioso: non c’erano scelte di comodo, ma una ricerca accurata delle proprietà fisiche e ottiche di ciascuna terra e minerale. Nei suoi taccuini ricorrono annotazioni sui leganti, sulle temperature di cottura e sulla granulometria del pigmento, perché sapeva che la resa finale dipendeva tanto dalla qualità del colore quanto dal modo in cui lo si preparava. Quelle terre e quegli ossidi diventavano protagonisti discreti delle sue opere: erano loro a garantire lo “sfumato” impalpabile dei volti, le profondità dei panneggi e le velature che conferivano agli incarnati un’aria di vita sospesa.
Terra Ombra di Cipro
Leonardo considerava le terre d’ombra il fondamento delle sue ombre più ricche. La versione naturale, ricavata da terreni ferruginosi a grana fine, veniva setacciata e lavata più volte per ottenere una polvere sottilissima, capace di scivolare sul supporto in strati quasi impalpabili. È questa morbidezza che troviamo nella “Dama con l’ermellino” (Cracovia), dove il contrasto tra l’abito scuro e il volto è modellato da un’ombra calda e avvolgente. La terra d’ombra bruciata, ottenuta riscaldando la stessa polvere a temperature elevate, acquisiva toni più intensi e caldi: ne emergono le pieghe profonde dei mantelli nella “Vergine delle Rocce” (Londra), dove il nero rinvigorito di questo pigmento regge l’umidità delle grotte e mantiene intatta la sensazione di tridimensionalità.
Azzurrite
Prima dell’arrivo dell’oltremare, l’azzurrite era il blu più importante. Leonardo la privilegiava per il suo tono opaco, di un azzurro quasi polveroso, che ben si adattava a strati successivi di velatura. La troviamo stesa a spessore sul manto azzurro dell’angelo nella “Madonna Litta” (San Pietroburgo), dove il pigmento conferisce compattezza alla stoffa, e in un gioco più leggiadro, in velature sottili, negli studi preparatori per l’“Ultima Cena” (Milano), dove piccoli accenni di azzurrite nel fondo suggeriscono un cielo lontano, velato dalla prospettiva atmosferica.
Nero D’Ossa
Pur amando la stratificazione di colori, Leonardo non rinunciava a definire tratti netti con il carboncino nei suoi disegni preparatori, come nei “Codici di Madrid”, dove il carboncino crea ombre nette e veloci. Il nero d’avorio, più denso e opaco, lo utilizzava nelle ombre dei tessuti scuri: miscelato con terra d’ombra, conferiva profondità e durevolezza, come si osserva nelle pieghe dell’abito nero della “Dama con l’ermellino”.
Ocra Gialla e Rosssa
Le ocra sono tra i pigmenti più antichi e stabili che l’uomo abbia mai usato, e Leonardo ne sfruttava ogni sfumatura per dare corpo ai volti e alle architetture. L’ocra gialla, estratta da depositi argillosi, portava con sé un calore gentile, perfetto per uniformare le planimetrie del volto nella “Gioconda”: applicata in pieghe sottili, creava un’intensa luminosità senza bordi evidenti. L’ocra rossa, più densa e carica di ferro, entrava nei punti focali – le guance, le mani, i campi lunari dei paesaggi – come accade nella “Sant’Anna” (Louvre), dove scalda i panneggi e offre un contrasto discreto con i toni più freddi.
Giallo Napoli
Questo pigmento semi-sintetico, a base di ossido di piombo-antimonio, si ritrova in alcune velature dorate delle architetture dipinte da Leonardo. Nel “Cenacolo”, la luce radente sulle pareti laterali rivela, grazie alla microscopia elettronica, strati sottili di giallo di Napoli utilizzati per simulare riflessi caldi della pietra. Leonardo apprezzava la sua opacità e il modo in cui si amalgamava alle terre ocra, rendendo più credibili le superfici murarie.
Rosso Cinabro
Il rosso vivo e intenso del cinabro, derivato dal solfuro di mercurio, veniva usato da Leonardo per accentuare dettagli di grande impatto: si trova in piccole quantità sulle guance della “Dama con l’ermellino” (Cracovia) e nei velluti rossi dei panneggi negli studi per l’“Ultima Cena” (Milano). Le analisi spettrografiche condotte presso la National Gallery di Londra confermano tracce di cinabro mescolato a lacca di garanza per ottenere toni di rosso più caldi e meno tendenti al porpora.
Lapislazzuli
Estratto dal preziosissimo lapislazzuli afghano, questo blu estremamente luminoso compare in Leonardo soprattutto quando voleva dare un tono sacro o nobile all’immagine. Analisi al C2RMF di Parigi ne hanno confermato l’uso nella mano di Maria nella “Madonna Benois” (Ermitage), dove uno strato sottile di ultramarino, mescolato a biacca, crea un cielo terso alle spalle del soggetto. Leonardo ne impiegava quantità limitate, dosandolo con estrema parsimonia per non appesantire la composizione né gravare il committente.
I Capolavori di Leonardo Attraverso i Suoi Pigmenti
Nella Gioconda, nella Vergine delle Rocce, nel Cenacolo e nella Madonna Litta emerge la mano dell’artigiano del colore che Leonardo fu. In ciascuna di queste tele si riconosce il risultato delle sue prove in bottega: l’ocra rossa e l’ocra gialla stratificate fino allo “sfumato” del volto, la terra d’ombra lavorata per ricreare ombre morbide e tridimensionali, l’azzurrite e il lapislazzuli dosati per vestire di blu i panneggi, la lacca di garanza e il cinabro impiegati con misura nei toni caldi. Leonardo selezionava ogni pigmento in base alla granulometria e alla compatibilità con la biacca, controllava l’opacità e la resistenza alla luce, e testava mescole e leganti per assicurarsi che la materia conservasse intatta la sua intensità nei secoli. Ne seguono descrizioni dettagliate di come questi materiali hanno preso forma e spessore nei suoi capolavori.
La Gioconda (1503–1506)
Louvre, Parigi
Dietro il celebre sorriso si estende una tessitura di pigmenti sapientemente stratificati: l’ocra gialla e l’ocra rossa sono stese in minuscole velature per ottenere lo “sfumato” delle guance e delle sopracciglia, senza mai tracciare contorni netti. La terra d’ombra naturale, molto diluita, modella le zone d’ombra sotto il mento e lungo il collo, dando coerenza materica al tessuto scuro della veste. Nei punti di luce più intensi, come il bordo degli occhi, un velo sottile di biacca crea riflessi sottili che sembrano vivere di luce propria, mentre tracce infinitesimali di cinabro mescolato a biacca, oggi quasi scomparse, una volta donavano un calore rosato alle labbra.
Vergine delle Rocce (1483–1486)
National Gallery, Londra
Il panneggio scuro di Maria e dell’angelo è un esempio di come Leonardo sapesse sfruttare la terra d’ombra bruciata e il nero d’avorio per costruire ombre profonde e morbide. Nel basso del mantello, il pigmento bruciato emerge concentrato, fornendo un contrasto caldo con le alture illuminate dall’ocra gialla, che sfuma i drappeggi bianchi in pieghe morbide. Il cielo sfumato sullo sfondo è ottenuto con azzurrite in velature sottili, stese su un preparato chiaro, e qualche puntino di lapislazzuli naturale miscelato a biacca regala un lampo di blu più luminoso all’orizzonte.
L’Ultima Cena (1495–1498)
Cenacolo Vinciano, Milano
In quella vastità di figure, Leonardo usò l’azzurrite miscelata a biacca per gli incarnati di Cristo e dei discepoli, ottenendo un azzurro pallido che contrasta con il calore dell’ocra rossa e del giallo di Napoli nelle vesti e negli sfondi architettonici. Le analisi hanno rivelato strati sottili di giallo di Napoli sulla cornice del muro e nei capitelli, studiati per simulare il riflesso dorato della pietra, mentre la lacca di garanza, usata con parsimonia nei tessuti rossi, infondeva un lampo trasparente senza appesantire la scena. Le ombre della tavola sono marcate da miscele di terra d’ombra naturalee verde veronese, così da legare la composizione all’atmosfera della stanza.
Madonna Litta (1490–1491)
Ermitage, San Pietroburgo
In questo ritratto la veste azzurra della Vergine prende vita grazie a lapislazzuli naturale, usato con cura in strati leggeri, e a azzurrite, che dona profondità alla piega. Nei panneggi rossi del mantello, la lacca di garanza è stratificata su una base di cinabro, creando una luminosità intensa ma satura, mentre l’ocra gialla entra nei dettagli ornamentali e nei riflessi del velo, stemperando i toni per renderli più morbidi. Il volto del Bambino, modellato in velature di biacca e una punta di ocra rossa, mostra un’incarnato caldo e insieme trasparente, segno della maestria di Leonardo nel combinare pigmenti naturali.
Ripensare oggi ai pigmenti che Leonardo da Vinci sperimentava in bottega significa riconnettersi a una tradizione artigiana più che secolare, dove la materia prima era scelta con rigore e rispetto. Usare oggi l’ocra gialla e l’ocra rossa non è un fait accompli nostalgico, ma una scelta consapevole: queste terre naturali mantengono un calore autentico, si mescolano senza reazioni inaspettate e offrono sfumature difficili da replicare con i soli sintetici. Allo stesso modo, l’azzurrite e il lapislazzuli portano in dote una trama cromatica unica, capace di creare profondità e luminosità nei toni freddi, mentre la terra d’ombra o la lacca di garanza garantiscono ombre morbide e rossi trasparenti, resistenti negli strati più sottili.
Nel restauro e nella pittura contemporanea, disporre di questi pigmenti significa mettere in atto un dialogo diretto con le tecniche rinascimentali, verificando sul campo come si comportano con leganti moderni e supporti attuali. Inoltre, riscoprire quei pigmenti significa valorizzare l’intero ciclo produttivo: dalle cave di ocra ai laboratori per la purificazione dell’azzurrite, fino alle mani dei fornaciai che cuociono la terra d’ombra. È un modo per preservare competenze “minori” ma fondamentali, oggi a rischio di estinzione, e per riportare in auge una sensibilità verso le materie che si traduce in un controllo tattile e visivo del colore.
Sorgenti e Approfondimenti: nature.com – politesi.polimi.it – unibo.it – monalisa.org